LA RIVISTA “ELLE MAGAZINE” HA PUBBLICATO UN’INTERVISTA DA ME RILASCIATA, POTETE LEGGERLA CLICCANDO QUESTO LINK:
INTERVISTA ELLE MAGAZINE 21 NOVEMBRE 2019
TRASCRIVO L’INTERVISTA:
Lo scrittore Giovanni Margarone, nato ad Alessandria nel 1965, ha vissuto in Liguria fino a ventuno anni per poi trasferirsi in Friuli per ragioni di lavoro. Da sempre accanito lettore e appassionato di musica e filosofia, ha iniziato a scrivere molto presto romanzi e racconti brevi che, volutamente, ha riposto nel cassetto. Poi è avvenuto il cambiamento e i suoi scritti più recenti sono diventati libri.
Che cosa l’ha spinto alla decisione di condividere con altri il suo sentire?
La solitudine dello scrittore è nota. Egli è un silenzioso operatore della lingua che trasfonde nel suo narrare ciò che proviene dal suo animo e da ciò che lo circonda. È proprio questa solitudine, vissuta da me fin da ragazzo, quando trascorrevo ore a scrivere storie sui miei quaderni poi riposti nel cassetto, che mi ha spinto, tanti anni dopo, a condividere le mie storie con il pubblico. Da quel momento mi sono sentito meno solo, perché sapevo di trasmettere ciò che percepivo e sentivo agli altri: i lettori.
Da quel momento lei ha iniziato a collezionare premi e attestati in vari concorsi e molto spesso è in giro per l’Italia a ritirare i molteplici riconoscimenti. In base a ciò, ritiene che la letteratura, e quindi i suoi autori, siano tenuti nella giusta considerazione in questo Paese, oppure ci sia ancora molta strada da fare rispetto ad altre realtà straniere?
Per l’autore la partecipazione a un concorso letterario con l’ottenimento di un risultato è sicuramente in fatto positivo, perché rende merito al suo lavoro e lo sprona a non demordere. Tuttavia, purtroppo, quando si sono spenti i riflettori di quei momenti di gloria, l’autore torna spesso nell’ombra, in quanto con i suoi mezzi non riesce a restare alla ribalta.
In Italia il panorama editoriale è quanto mai confuso, gli autori emergenti non riescono spesso a orientarsi e non fanno che collezionare una serie di rifiuti dalle case editrici per le ragioni più disparate. L’offerta editoriale è vasta, certo, ma molti, forse troppi, sono gli editori che erigono muri con gli autori emergenti. In un’Italia fatta di scarsa propensione alla lettura, poche case editrici sono disposte a investire su un autore sconosciuto; per questo continuano a curare coloro che hanno già uno spazio consolidato in libreria e che assicurano il fatturato. Ciò impedisce anche a sicuri talenti di farsi il loro spazio e questo è un vero peccato. Penso che ci sia ancora tanta strada da percorrere in Italia, non tanto nell’evoluzione del panorama editoriale, quanto in una sua profonda rivisitazione.
Lei è uno scrittore di narrativa. Ha qualche corrente letteraria che sente più vicina e autori a cui fa riferimento?
Sento molto vicini il Realismo ottocentesco e Neorealismo italiano del novecento, passando per il Verismo. I miei riferimenti sono in particolar modo gli autori russi (per esempio Dostoevskij, Tolstoj, Gogol) tedeschi (tra cui Goethe), francesi (per esempio Flaubert, Balzac, Prèvost) e italiani (tra i quali Pavese, Calvino, Cassola, Svevo, Deledda; Primo Levi).
Dal 2018 lei ha scritto e pubblicato ben quattro romanzi, tre dei quali giunti alla seconda edizione. Tra questi c’è l’ultimo: “E ascoltai solo me stesso”, uscito nel 2019 con la casa editrice Kimerik. Ci vuole raccontare in breve la trama, senza ovviamente svelare più del necessario, e dirci perché ha sentito l’esigenza di trattare tali argomenti?
É la storia di un adolescente francese, Jacques, che si avvicina, dopo alterne vicende, a un anziano agricoltore di origine spagnola, per il quale la ristretta comunità di un paese di provincia del sud della Francia nutre profondi preconcetti e lo emargina. Il giovane decide, senza voler ascoltare nessuno – da qui il titolo – di aiutare questo vecchio nel suo riscatto esistenziale, trovando non poche resistenze e difficoltà a parte dell’ottusa comunità paesana. Ci riuscirà? Lo lascio scoprire ai lettori!
I temi, quindi, è quelli del riscatto sociale e della lotta all’emarginazione, argomenti più che mai attuali ai nostri giorni. Ciò che mi ha spinto a concepire questo libro è essenzialmente ciò che sono: un uomo che rifiuta a priori il pregiudizio, l’ottusità e la discriminazione in tutte le sue forme: il messaggio che voglio dare attraverso questo romanzo è proprio questo.
Si ritrova in modo particolare in qualche personaggio del romanzo? E perché?
Nel ragazzo, Jacques. Perché anch’io ascolto poco gli altri e preferisco usare le mie cognizioni per affrontare le situazioni.
Visto quanto riesce a produrre in tempi ravvicinati, ha già iniziato a lavorare a un’altra opera?
Ho finito un romanzo dal titolo provvisorio “Goran” e ne sto ultimando un altro, il titolo è tanto provvisorio che preferisco non anticiparlo. Ho già idee per quello ancora dopo.
Si dice che gli scrittori si dividano in due categorie: quelli per i quali la scrittura è sofferenza e quelli che soffrono se smettono di praticarla. Lei a quale delle due appartiene, e perché?
Sicuramente alla seconda, perché la scrittura fa parte di me stesso e per me è irrinunciabile; invece soffro se sono costretto a fare qualcosa che non mi aggrada.
Il 2020 non è poi così lontano e il mio augurio è che anche il prossimo anno ci riservi l’uscita di un suo nuovo romanzo…
Ci dovrebbe essere l’uscita della seconda edizione di “Quella notte senza luna”, il mio quarto romanzo, non c’è ancora però una data certa.
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